A cura della Prof. C.R. Gaza
Introduzione
Da un punto di vista strettamente
geografico, l’Europa non è identificabile con chiarezza. Essa,
infatti, si presenta come un’appendice dell’Asia rispetto alla
quale non è delimitata da precisi confini naturali. Non a caso si
parla di Eurasia per indicare la massa continentale unica che
comprende Europa e Asia.
Tuttavia, anche se i suoi confini
geografici sono incerti, l’Europa presenta una forte
riconoscibilità rispetto ai confinanti territori asiatici. Questa
caratterizzazione è il prodotto della particolare evoluzione storica
che è alla base della sua civiltà, della sua cultura e della sua
mentalità. Seppure attraversati da numerose e spesso vistose
differenze, i popoli europei hanno comunque un sostrato comune,
qualcosa che li unisce e al tempo stesso li differenzia da popoli con
esperienze storiche diverse.
Non è facile delimitare l’area di
quella che possiamo chiamare “civiltà europea” e non tutti gli
studiosi concordano su di un’unica ipotesi. C’è, per esempio,
chi parla di civiltà euro-atlantica, comprendendo insieme la
“vecchia” Europa e i Paesi sviluppati del Nord America, Stati
Uniti e Canada, e chi invece ne sottolinea differenze tali da far
parlare di due diverse civiltà.
Un’altra condizione incerta è
quella della Russia, che a partire dal Settecento, per opera dello
zar Pietro I il Grande, si è “europeizzata” imitando il costume,
l’arte e la cultura dell’Europa. Il dubbio nasce dal fatto che,
nonostante la parte più sviluppata e popolata della Russia, quella
occidentale, abbia uno stile di vita analogo a quello europeo, la sua
componente asiatica è molto forte, sia dal punto di vista
dell’estensione territoriale che occupa sia da quello delle
numerose etnie in cui si articola. Aggiungiamo che tra i Russi
“europeizzati” è fortemente diffuso il pensiero detto
“neoslavofilo” secondo il quale la cultura, la civiltà e le
tradizioni russe sono autonome e separate da quelle europee.
La Turchia, che preme per essere
ammessa nell’Unione Europea, ha tutte le caratteristiche di un
Paese-ponte tra Europa e Asia: di religione musulmana e di etnia
asiatica, la Turchia ha comunque secolari rapporti, talvolta
diplomatici, più spesso conflittuali, con l’Europa. Dopo la Prima
guerra mondiale, una rivoluzione ha portato al potere una classe
dirigente intenzionata a modernizzare ed europeizzare il Paese che
oggi si trova per così dire a metà strada tra un passato “asiatico”
e un’evoluzione “europea”.
Oggi l’Unione Europea conta
ventisette Paesi e altri vi entreranno probabilmente in un prossimo
futuro. E’ evidente che, per entrare a fare parte del “club”, i
nuovi ammessi saranno tenuti a presentare determinate caratteristiche
che li rendano “europei”, cioè in qualche modo omogenei agli
altri Paesi membri.
I criteri di omogeneità che possono
tenere insieme popoli tanto gelosi delle loro identità nazionali
sono costituiti da quell’insieme di caratteri maturati nella corso
della storia come insieme di valori e di progresso civile, giuridico
e sociale. Questi sono i caratteri che possono accomunare realtà
tanto diverse come quelle della Spagna e dell’Ungheria, di Cipro e
dell’Estonia.
Le
origini: la rottura dell’unità mediterranea
Al punto massimo della sua espansione
imperiale, Roma dominava su vasti territori che avevano il loro
baricentro nel Mediterraneo. L’impero, dal suo nucleo originario
romano-italico, controllava l’Europa occidentale, l’Africa
settentrionale, il Medio Oriente e la regione Danubiano-balcanica. Il
processo di assimilazione culturale aveva prodotto una sintesi tra le
principali componenti dell’Impero: quella romano-italica, quella
gallica e quella ellenistica. Quest’ultima era a sua volta il
prodotto di una precedente assimilazione, quella tra la cultura greca
e la cultura mediorientale, realizzatasi a seguito della vasta
unificazione territoriale operata da Alessandro Magno.
E’ importante sottolineare che, da
un punto di vista culturale, l’Impero aveva dato luogo a
un’autentica assimilazione dei popoli conquistati: la lingua latina
era parlata in vasti territori, le classi dominanti delle varie e
remote regioni studiavano nelle scuole romane mentre l’élite
intellettuale completava la propria formazione nei più famosi centri
culturali dell’Impero. Le strade romane si irraggiavano dalla
capitale collegando tutti i centri più importanti. In questo senso
parliamo di una vera e propria unità mediterranea, che non investiva
solo l’aspetto politico ma anche quello della cultura e della
civiltà.
La crisi di Roma segnò la fine di
questa unità. In primo luogo vi furono le invasioni dei popoli
germanici, i cosiddetti barbari, che, a partire dal V secolo d. C.,
irruppero nei territori dell’Impero occupandone vaste regioni. E’
opportuno notare che i barbari si insediarono nell’Europa
occidentale (Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Olanda…) ma non
riuscirono a penetrare in quella orientale, più ricca, più
saldamente governata e più forte militarmente. L’Impero romano
d’Oriente, con capitale Bisanzio, resse infatti circa mille anni in
più di quello d’Occidente conservando la sua autonomia fino alla
conquista avvenuta ad opera dei Turchi nel 1453.
A questa prima divisione se ne
aggiunse una seconda. Tra il VII e l’VIII secolo l’avanzata degli
Arabi condusse alla creazione di un vasto impero, esteso, da ovest a
est, dal Marocco alla valle dell’Indo. Anche la Spagna e la Sicilia
conobbero un periodo di dominazione araba.
L’unità politica e culturale che
Roma aveva realizzato intorno al bacino del Mediterraneo era dunque
stata sostituita da una divisione in tre diverse entità: quella
arabo-islamica, quella bizantina e quella romano-germanica.
Quest’ultima rappresenta il primo nucleo della moderna Europa.
La
costruzione delle fondamenta: la sintesi che chiamiamo Europa
Mentre Bisanzio continuava a
prosperare e l’Islam creava una straordinaria fioritura economica,
artistica e scientifica, le regioni occupate dalle popolazioni
germaniche conoscevano una lunga fase di decadenza che investiva
tutti gli aspetti della società: dall’economia alla vita civile,
dalla stabilità politica alla cultura.
Tuttavia, in questi “secoli bui”
avvenne quella sintesi tra contributi di culture diverse che è oggi
alla base dell’identità europea.
Dobbiamo pensare che, passato il primo
violento e traumatico momento dell’invasione barbarica, nella
maggior parte dei territori occupati si instaurò una forma di
collaborazione tra conquistatori e conquistati. I primi, infatti, per
quanto forti da un punto di vista militare, erano costituiti da tribù
nomadi e i loro capi erano del tutto privi di esperienza del governo
di vaste entità territoriali con popolazioni sedentarizzate. I
secondi, invece, a livello della loro classe dominante, erano colti e
capaci dal punto di vista organizzativo. Questi ultimi fecero di
fatto buon viso a cattivo gioco: per quanto deprivati di buona parte
delle loro proprietà terriere (i barbari pretesero la metà o i due
terzi delle terre) i gallo-romani finirono per offrire la loro
collaborazione allo scopo di scongiurare una crisi peggiore e di
conservare un ruolo socialmente rilevante.
Determinante fu, in questo contesto,
il ruolo della Chiesa che era capillarmente presente in tutti i
centri urbani e che, di lì a poco, avrebbe intrapreso la sua
penetrazione nelle campagne ad opera dei monaci benedettini. La crisi
di Roma aveva segnato la fine delle sue scuole e pertanto gli unici
intellettuali del tempo erano i membri del clero, provenienti dalle
famiglie dell’aristocrazia gallo-romana.
La conversione dei barbari al
cristianesimo, abbastanza rapida e generalizzata, aprì una fase di
lunga anche se non semplice collaborazione tra la Chiesa e la nuova
aristocrazia germanica.
I nuovi dominatori erano analfabeti e
inesperti nel governo e tuttavia i regni da loro fondati
necessitavano di procedure più elaborate di quelle a cui essi erano
abituati. Se si trattava, per esempio, di impartire un ordine che
doveva essere diffuso a tutto il regno, questo doveva necessariamente
essere scritto. Succedeva così che erano i vescovi a scrivere editti
e capitolari e il loro intervento non era di semplice redazione ma
spesso introduceva formule o richiami di carattere religioso. Il
risultato a lungo termine di questi interventi fu quello di mitigare
il carattere rude e prevaricatore di tali editti.
Non vogliamo con questo dire che la
classe di governo germanica divenne illuminata e rispettosa del
popolo sottomesso. Certo è, però, che a contatto con la tradizione
del diritto romano e con l’ideologia cristiana, il diritto
consuetudinario germanico, spesso caratterizzato da pratiche violente
e sommarie, si modificò in forme meno arbitrarie e prevaricatrici.
La funzione mitigatrice della Chiesa
non fu così netta e continua anche perché tra le file dell’alto
clero cominciarono a entrare elementi dell’aristocrazia germanica,
di formazione militare più che religiosa. Di fatto, tuttavia, fu
grazie all’ideologia cristiana che alcune limitazioni alla violenza
furono acquisite anche dalla mentalità dei dominatori. La
salvaguardia di determinati luoghi, quali chiese e mercati, da
qualsiasi atto violento o la dichiarazione di principio che i
soggetti deboli, come vedove e orfani, dovessero essere preservati e
difesi rappresentano l’avvio del lungo cammino storico che porterà
la civiltà europea a elaborare i principi su cui oggi si fonda.
In sintesi, alla caduta dell’Impero
romano si trovano a interagire tre diverse eredità culturali: quella
germanica, quella gallo-romana e quella cristiana. Dalla reciproca
influenza di questi elementi prese origine una civiltà piuttosto
omogenea che rappresenta il primo aspetto dell’Europa.
L’Impero
e la Chiesa
Quando, nell’anno 800, Carlo Magno
venne incoronato imperatore dal papa Leone III, sembrò che l’Europa
avesse trovato un nuovo e stabile assetto. Dal punto di vista
politico, infatti, l’azione militare che Carlo aveva condotto allo
scopo di rendere più sicuri i confini aveva avuto come esito quello
dell’unificazione sotto la sua corona di vasti territori,
corrispondenti all’incirca alle attuali Francia, Germania, Italia
centro-settentrionale più altri territori limitrofi occupati solo
temporaneamente. Poca cosa se si paragona l’impero di Carlo a
quello dei Romani. Tuttavia, per la prima volta dopo la crisi di
Roma, emergeva un organismo politico esteso su territori che possiamo
considerare come il nucleo dell’Europa.
Dal punto di vista degli ideali
dell’Impero carolingio, dobbiamo notare l’enfasi che veniva posta
sul concetto di unità del popolo cristiano. Carlo assunse il titolo
di “Imperatore del Sacro romano impero” sottolineando così il
suo intento di restaurare nei territori conquistati l’unità
politica di eredità romana e di raccogliere la cristianità sotto un
unico potere che avrebbe dovuto vedere una sorta di collaborazione
tra l’autorità politica (l’imperatore) e quella religiosa (il
papa) sul modello di quanto era avvenuto sotto l’imperatore
Costantino.
Nella realtà questo ideale rimase
“declaratorio”, cioè più nelle parole che nei fatti. L’unità
politica durò assai poco e l’Impero conobbe una nuova suddivisione
tra gli eredi di Carlo e, in seguito, nel sistema feudale. I secoli
seguenti la restaurazione di Carlo furono segnate da nuove invasioni
(i Normanni) e da feroci scorrerie (gli Ungari da est e i Saraceni
attraverso il Mediterraneo). L’iniziale collaborazione tra l’Impero
e la Chiesa lasciò il posto a un’aspra lotta di supremazia.
Nonostante questo palese fallimento,
l’ideale di Carlo Magno non andò perduto. Basti pensare che il
titolo di Imperatore del Sacro romano impero continuò a essere
attribuito fino al 1806. Periodicamente, come vedremo in seguito,
questa suggestione ha dato luogo a nuovi tentativi di unificazione
imperiale dell’Europa.
Per parte sua, la Chiesa sancì il suo
radicamento europeo occidentale con due atti di contrapposizione
verso differenti realtà religiose e culturali: la rottura con la
chiesa greco-ortodossa dell’Europa dell’est (scisma d’oriente,
1054) e lo scontro con l’Islam (le crociate, che presero avvio nel
1096).
L’Europa che emerse dal Medioevo
presentava dunque i caratteri germanico e cristiano. Quello che
bisogna comunque sottolineare è che, nella civiltà che andava
prendendo forma, il centro dell’influenza politica e militare si
era spostato definitivamente dall’Europa mediterranea a quella
continentale.
Sei
tentativi egemonici
All’inizio del Cinquecento l’Europa
era divisa in circa cinquecento Stati. Per farci un’idea di ciò
che questo significa, ci basta pensare che oggi in tutto il mondo ce
ne sono centonovantotto.
Cinquecento Stati certamente non
omogenei: accanto a nuove e forti monarchie nazionali (Francia,
Inghilterra e Spagna), l’Impero governava nominalmente sulla
Germania che, in realtà, si trovava sotto il potere di grandi
feudatari gelosi della loro autonomia. Oltre a questi, l’Europa
presentava numerosissimi Stati a scala regionale e una
polverizzazione di micro-Stati, spesso solo città-Stato, variamente
indipendenti o semi-indipendenti.
Questo è il contesto in cui prese
avvio una serie di tentativi egemonici, ossia tentativi da parte di
potenze a volta a volta diverse di imporre il proprio predominio
sull’Europa. I primi tre ebbero come protagonisti gli Asburgo; il
quarto e il quinto la Francia di Luigi XIV e poi di Napoleone; il
sesto, suddiviso come vedremo in due fasi corrispondenti alle due
guerre mondiali, la Germania.
Tutti questi tentativi, operati in un
arco storico della durata di oltre quattro secoli, dall’inizio del
Cinquecento al 1945, fallirono per differenti motivi. Questi
fallimenti presentano, tuttavia, un tratto comune: nessuna potenza
europea ha mai avuto un margine di vantaggio sulle altre tale da
potere prevalere. Ogni volta che una potenza è diventata abbastanza
forte da intraprendere un tentativo egemonico, le altre forze si sono
coalizzate in modo da neutralizzarla. Detto in altre parole, tutti i
tentativi di unificare l’Europa con la forza sono falliti.
Vediamo ora di analizzare brevemente
questi tentativi e di capire perché non hanno funzionato.
Primo
tentativo: Carlo V
Carlo V d’Asburgo divenne imperatore
nel 1519. Una accorta politica matrimoniale, intrapresa dal nonno di
Carlo, aveva portato gli Asburgo a ereditare un vasto impero che
comprendeva il nucleo costituito dal vecchio Sacro romano impero,
corrispondente alla Germania, la Spagna, i Paesi Bassi, la Borgogna,
la Franca Contea, il regno di Napoli e le grandi e ricche colonie
dell’America Latina.
L’estensione del suo impero
territoriale incoraggiò Carlo V a tentare di realizzare un progetto
estremamente ambizioso: quello di unificare l’Europa sotto il
profilo politico e di estirpare l’eresia per dare all’impero
uniformità religiosa. Profondamente cattolico, Carlo V considerava
l’unità religiosa come fattore irrinunciabile per cementare
l’unità politica dei sudditi.
Il tentativo di Carlo V si protrasse
per quasi un quarantennio senza giungere a compimento. In primo
luogo, la Francia, seppure accerchiata dai possedimenti asburgici,
riuscì a difendere la propria autonomia. In secondo luogo,
quell’unità religiosa che Carlo V sognava per l’Europa tramontò
definitivamente con la Riforma luterana che, di fatto, provocò una
frattura nelle coscienze europee e sottrasse parte dell’Europa al
controllo spirituale della Chiesa cattolica. Infine, l’ampiezza del
progetto di Carlo e la vastità del suo impero comportarono
inevitabilmente una dispersione strategica delle sue forze: un’entità
territoriale di tali dimensioni ha inevitabilmente troppi nemici che
devono essere affrontati contemporaneamente. Carlo V, mentre tentava
di assoggettare la Francia, dovette combattere i Turchi che
minacciavano la stessa città di Vienna; i principi tedeschi che
avevano aderito alla dottrina di Lutero e per giunta numerose
ribellioni in America Latina e fra gli stessi sudditi che
manifestavano la loro insofferenza al dominio asburgico.
Nel 1556, stanco e deluso, Carlo V
abdicò dividendo il suo impero in due parti: la corona del Sacro
Romano Impero fu assegnata al fratello Ferdinando e il resto dei suoi
possessi al figlio Filippo II.
Secondo
tentativo: Filippo II
Cresciuto nel clima lugubre della
Controriforma, Filippo II tentò come il padre di unificare l’Europa
sotto l’unica fede cattolica in primo luogo, secondo la tradizione
della sua famiglia, attraverso matrimoni dinastici. Egli si sposò
quattro volte e altrettante rimase vedovo avanzando pretese
ereditarie sui possessi delle defunte mogli. Filippo II ebbe parziali
successi: riuscì ad annettersi il Portogallo e per un certo tempo
esercitò influenza sull’Inghilterra. Tuttavia, sul lungo periodo,
il suo progetto si tradusse in fallimento. Il tentativo di invasione
navale dell’Inghilterra ebbe come esito l’affondamento
dell’intera flotta spagnola mentre la guerra interminabile per
sedare la rivolta delle province olandesi condusse la Spagna alla
bancarotta di Stato. Il tracollo economico fu la principale causa del
declino spagnolo che, a partire dal Seicento, scomparve dal numero
delle potenze di primo rango.
Un’altra ragione del fallimento di
Filippo II è di natura culturale. La Spagna che tentava di imporre
la propria egemonia sull’Europa era dominato da una classe
aristocratica parassitaria, preoccupata dagli aspetti formali del
proprio ruolo sociale e da questioni di etichetta. Le potenze che si
andavano affermando, l’Inghilterra e l’Olanda, erano invece
economicamente dinamiche, con la presenza di una borghesia attiva e
protagonista della vita civile. Si delineava così un’Europa “a
due velocità”: una parte intraprendeva la strada dello sviluppo
economico e sociale mentre un’altra entrava in fase di declino e di
lunga stagnazione. In questo contesto l’Europa orientale rimase
marginale e ancorata a modelli economico-sociali di stampo feudale.
Terzo
tentativo: Ferdinando II
Il progetto che, all’inizio del
Seicento, spinse l’imperatore Ferdinando II d’Asburgo a
intraprendere una guerra era quello di fare della Germania uno Stato
centralizzato e cattolico. In realtà la sua iniziativa mise in moto
una serie di risposte a livello europeo che innescarono un vasto
conflitto avente come obiettivo l’egemonia sull’Europa: la guerra
dei Trent’anni (1618-1648).
Tralasciando le complesse vicende
della guerra, ci limiteremo a metterne in luce due aspetti. Il primo
è che essa rappresentò l’ultimo scontro di religione in Europa.
Da quel momento in poi, le guerre assunsero un carattere decisamente
politico e laico.
Il secondo aspetto su cui vale la pena
di soffermarsi è quello relativo al trattato di pace che pose fine
alla guerra: la pace di Westphalia. Questo trattato, al pari di molti
altri precedenti, mirava a una pace di compromesso che tendesse
piuttosto a ristabilire l’equilibrio tra le potenze che a premiare
un vincitore. Peraltro, in guerre di carattere così diffuso e
dall’esito alterno non è cosa facile individuare con nettezza un
vincitore.
Il sistema di relazioni tra gli Stati
stabilito a Westphalia ebbe lunga durata: di fatto esso fu messo in
crisi solo alla fine della Seconda guerra mondiale, quando nacque un
sistema mondiale basato sul bipolarismo USA-URSS. Il sistema di
Westphalia si basava su di un principio che va in direzione
esattamente opposta a quella della necessità di unione e
cooperazione tra gli Stati. A Westphalia, infatti, si dichiarò che
essi “superiorem non recognoscent” (non riconoscono nulla e
nessuno che sia loro superiore). In altre parole, si stabilì che non
poteva esservi alcun vincolo, come ad esempio un trattato
internazionale, che limitasse la libertà di azione dei singoli
Stati.
In questa prospettiva lo scopo della
politica degli Stati si ridusse a quello del proprio vantaggio mentre
i concetti di bene comune, sicurezza collettiva, stabilità europea
dovettero attendere tre secoli e molte guerre sanguinose prima di
affermarsi.
Quarto
tentativo: Luigi XIV
Il regno di Luigi XVI re di Francia,
durato dal 1643 al 1715, fu caratterizzato da un forte dinamismo
internazionale volto a imporre l’egemonia francese sull’Europa. A
questo scopo il sovrano utilizzò i mezzi più disparati: oltre a una
serie di guerre, il Re Sole non si faceva scrupolo di praticare la
corruzione internazionale. Egli infatti comprò con generose somme di
denaro l’alleanza di altri sovrani e corruppe numerosi parlamentari
inglesi per influenzare la politica del suo principale avversario,
l’Inghilterra appunto. Fu tuttavia attraverso manovre diplomatiche
che egli riuscì a porre il proprio nipote sul trono di Spagna, la
cui famiglia regnante si era estinta, e a governarla di fatto
attraverso continue ingerenze.
La politica di Luigi XVI era la
classica politica di potenza, volta a estendere i domini e l’area
di influenza della corona. Il suo progetto, in altri termini, non si
poneva come obiettivo di cambiare l’assetto dell’Europa né di
unificarla ma, molto più semplicemente quello di accrescere
l’influenza della Francia.
Il progetto di potenza di Luigi XVI
non si realizzò soprattutto per un ostacolo. Secondo un copione che,
vedremo, si ripresenterà anche nel contesto del quinto e del sesto
tentativo egemonico, a fronte di una potenza che minaccia di imporre
il proprio predominio, le altre si coalizzano allo scopo di fermarla.
Questo schema risulterà tipico del sistema di Westphalia fino al suo
esaurimento.
Quinto
tentativo: Napoleone
Quando la Francia rivoluzionaria
intraprese la lunga fase delle campagne militari, lo fece soprattutto
allo scopo di difendere le conquiste della rivoluzione dalla
coalizione di potenze che miravano ad azzerarle nel timore che esse
potessero costituire un pericoloso esempio per il resto dell’Europa.
Queste guerre presentavano una
caratteristica nuova. Mentre, infatti, gli eserciti avversi alla
Francia erano costituiti, sul vecchio modello, da elementi di varia
estrazione popolare che si arruolavano per il salario, quello
francese era un “esercito nazionale” formato da “cittadini in
armi” che combattevano per la nazione e per gli ideali della
rivoluzione. In particolare, poiché gli ideali della rivoluzione
erano universalistici, cioè non riguardavano solo i francesi ma
l’umanità tutta, lo scopo dell’esercito francese era quello di
propagare le conquiste della rivoluzione anche agli altri popoli
dell’Europa. Questo spiega perché le armate francesi venivano
salutate con favore da quella parte degli Europei, in particolare
borghesi e intellettuali, che aspiravano a creare sistemi politici di
impronta liberale o democratica.
Questo aspetto costituisce
un’autentica novità a livello storico. Mentre, infatti, in passato
le guerre erano state caratterizzate da contrapposizione dei governi
senza che vi fosse da parte delle masse popolari alcuna
partecipazione a livello ideologico, per la prima volta si assistette
a uno schieramento di forze “trasversale”, indipendente, cioè,
dai confini degli Stati. Da una parte vi erano gli acerrimi nemici
della Francia e della rivoluzione, dall’altra i simpatizzanti che
vedevano nelle conquiste francesi un’occasione di progresso
politico e sociale.
Napoleone, che si affermò nel corso
di queste guerre, perseguì scopi contradditori. Mentre, da un lato,
negli Stati sconfitti e sottomessi egli importava il modello della
Francia rivoluzionaria, dall’altro vi imponeva pesanti regimi
fiscali trattandoli come vere e proprie colonie. Questo comportamento
fece sì che Napoleone si alienasse il sostegno che, all’inizio
della sua ascesa, lo aveva salutato come “liberatore dei popoli”.
Altrettanto ambiguo fu il suo percorso
politico. La decisione di rivestire il titolo di imperatore e di
sposare la figlia dell’imperatore d’Austria rappresentò agli
occhi di molti dei suoi stessi sostenitori un autentico tradimento
degli ideali della rivoluzione. Forse proprio in questo risiede la
causa più profonda della sua sconfitta.
Nonostante le sue contraddizioni, il
progetto egemonico di Napoleone rappresentò comunque una svolta
rispetto ai precedenti. Di là dai suoi errori politici e dalle sue
alterne fortune militari, Napoleone per primo ebbe l’intuizione
dell’Europa come di un’unica area economica, nella quale i bacini
carboniferi del Belgio e della Ruhr e le industrie pesanti della
Renania dovevano rifornire indifferentemente le industrie e i mercati
di tutto il continente. Il nuovo assetto politico dell’Europa
deciso a Vienna separò con i confini nazionali aree e territori
“naturalmente” collegati e integrati ritardando e ostacolando lo
sviluppo economico dell’Europa.
La caduta di Napoleone non rappresentò
l’azzeramento dell’esperienza storica di cui egli era stato
protagonista. Gli ideali della rivoluzione avevano attraversato i
confini e attecchito nella maggior parte delle società europee
andando a costituire un forte sostrato comune di valori e di
aspirazioni.
Tutt’altro che marginale fu l’opera
uniformatrice di Napoleone rispetto alle norme regolative della
società: i codici civili oggi in vigore negli Stati europei sono per
la maggior parte direttamente derivati da quello napoleonico.
Un ultimo dettaglio: si deve a
Napoleone l’uniformazione europea rispetto alle unità di misura.
Il sistema metrico decimale sostituì ovunque, tranne che in
Inghilterra, i precedenti, diversi non solo a seconda degli Stati ma
spesso anche delle regioni.
L’uniformità permise di superare
gravi difficoltà in molti settori, ad esempio negli scambi
commerciali, nella diffusione del sapere scientifico, nella
costruzione dei macchinari.
La
“Pace dei cent’anni”
I sovrani e i diplomatici che tra il
1814 e il 1815 si riunirono a Vienna avevano come obiettivo quello di
trovare un nuovo assetto per l’Europa che scongiurasse possibili
futuri rivolgimenti come quello prodotto da Napoleone. La carta
dell’Europa venne ridisegnata secondo il principio dell’equilibrio:
evitare di alterare i rapporti di forza tra le potenze di primo rango
e utilizzare come interposizione tra di esse piccoli Stati, antichi e
di nuova formazione. Tale metodo non teneva in alcun conto il fatto
che alcune nazionalità venissero così separate in Stati diversi o
accorpate a forza in uno stesso Stato.
Il
sistema di Vienna resse a lungo, fino allo scoppio della Prima guerra
mondiale nel 1914, tanto che gli storici hanno coniato la definizione
di “Pace dei cent’anni”. Non si trattò, in verità, di un
secolo privo di guerre ma piuttosto di un secolo in cui esse, a
paragone delle età precedenti, furono effettivamente poche,
coinvolgenti un numero molto limitato di belligeranti e di breve
durata, spesso di poche settimane. Inoltre la maggior parte di esse
non aveva il carattere della conquista: si trattava piuttosto di
guerre con lo scopo di conservare l’equilibrio europeo se questo
rischiava di venire alterato, per esempio, dai moti per le
indipendenze e le unità nazionali.
Tuttavia, nonostante fitte relazioni
diplomatiche e reti di alleanze si adoperassero per il mantenimento
dell’equilibrio, si manifestò un potente fattore di perturbazione:
l’unificazione della Germania che, nel 1870, alterò in modo
irrimediabile il sistema nato a Vienna.
Il nuovo Stato tedesco diede prova,
fino dal suo processo di formazione, di possedere un formidabile
apparato militare e, colmando con straordinaria rapidità il ritardo
di sviluppo economico che lo separava dalle maggiori potenze europee,
si affermò come grande potenza industriale.
Sesto
tentativo: la Germania. Prima fase
L’unificazione
della Germania coincise con un profondo e radicale cambiamento
economico e sociale noto come “Seconda rivoluzione industriale”.
Un grande balzo tecnologico ebbe come conseguenza un enorme
incremento della produzione industriale. Il prezzo dei prodotti
industriali diminuì considerevolmente e questo permise che le fasce
sociali più basse accedessero ai consumi.
Tuttavia
la produzione industriale crebbe più di quanto i mercati fossero in
grado di assorbire e questa situazione si tradusse in una “crisi di
sovrapproduzione”: i magazzini delle fabbriche si riempirono di
prodotti invenduti e, pertanto, si innescò un fenomeno a catena di
licenziamenti e fallimenti.
A
livello internazionale questa situazione creò condizioni di aspra
tensione: ciascuno Stato fu spinto a tentare con ogni mezzo di
imporre i propri prodotti sui mercati esteri evitando al contempo che
merci straniere entrassero sul proprio mercato interno.
La
concorrenza commerciale si affiancò alla diffusione di un’ideologia,
detta “imperialismo”, secondo la quale era diritto naturale di
ogni potenza di espandersi a danno degli Stati più deboli: una
specie di legge del più forte applicata alla politica
internazionale.
In
questa situazione di grande tensione l’azione diplomatica, condotta
soprattutto dal cancelliere tedesco von Bismarck, ottenne il
risultato di mantenere un equilibrio, per quanto precario, tra le
potenze europee senza, tuttavia, che il problema di fondo, quello
della concorrenza commerciale, venisse risolto.
Nel
quadro europeo la situazione più critica era proprio quella della
Germania. Arrivata per ultima all’unità politica e allo sviluppo
industriale, essa non aveva partecipato alla spartizione coloniale
del mondo in cui Inghilterra e Francia avevano fatto la parte del
leone. Nel contesto della crisi economica, i possessi coloniali
consentirono a queste ultime di dirottarvi merci invendute in patria
e di investirvi capitali con alto profitto. Non così la Germania
che, possedendo una quantità irrilevante di colonie, si ritrovò con
un formidabile potenziale industriale chiuso, quasi strangolato, in
un territorio troppo limitato e circondato da altre potenze
industriali.
Lo
scoppio della Prima guerra mondiale ebbe sicuramente molte altre
concause ma quella economica fu determinante. La Germania con i suoi
alleati scatenò una guerra che peraltro tutti volevano e per la
quale tutti si stavano preparando da decenni.
Dopo
quattro anni di guerra e tredici milioni di morti, un’Europa
esausta e impoverita si sedette al tavolo delle trattative. Il
presidente statunitense Wilson si pose in veste di mediatore per
trovare un assetto stabile, tale da scongiurare altre tragedie. Il
suo tentativo, tuttavia, fallì soprattutto a causa della Francia che
riteneva che soltanto annientando la potenza tedesca si potesse
ripristinare l’equilibrio.
Fu
così che la Francia volle e ottenne un trattato di pace estremamente
punitivo per la Germania. Questa non aveva subito alcuna sconfitta
militare ma si era arresa per effetto della sua condizione di Stato
assediato: in Germania non vi era più cibo né materiale per le
industrie belliche. La Germania fu così costretta a firmare un
trattato in base al quale si impegnava ad accollarsi l’intero costo
della guerra sostenuto dalla Francia (132 miliardi di marchi oro); a
concederle lo sfruttamento delle proprie risorse minerarie; a ridurre
drasticamente il proprio esercito; a consegnare tutta la sua flotta
mercantile e la maggior parte del bestiame; a rinunciare a tutte le
sue colonie; a mantenere a proprie spese un contingente francese di
occupazione nella regione del Reno e dichiarare la propria esclusiva
responsabilità per lo scoppio della guerra.
La
Germania firmò con la conseguenza che tra la popolazione tedesca si
diffuse un pericoloso sentimento di rivalsa. Il trattato di pace, in
realtà, aveva preparato il terreno di coltura per una nuova guerra.
“Unirsi
o perire”
Il
ventennio che separa le due guerre mondiali può in effetti essere
interpretato come una pausa tra due fasi della stessa guerra durante
la quale presero corpo due tendenze opposte: quella verso
l’integrazione e quella verso la ripresa della politica di
aggressione. Fu la seconda a prevalere. Tuttavia è importante, ai
fini della comprensione del processo di unificazione europea,
conoscere una serie di eventi che lo anticiparono e ne posero le
basi.
Mentre
in molti Paesi europei si assisteva all’affermazione di regimi
fascisti o autoritari, l’economia si risollevava lentamente. In
questo contesto il dibattito era tuttavia molto vivace. In
conseguenza del trauma per la carneficina della Grande guerra nacque
il movimento pacifista il cui motto “Mai Più” esprimeva la
volontà della società civile di rifiutare la guerra come strumento
di risoluzione delle controversie tra gli Stati.
Parallelamente
intellettuali ed economisti avanzarono la tesi che le grandi
dimensioni territoriali erano indispensabili allo sviluppo economico
e che l’Europa divisa in Stati non poteva competere a livello
internazionale.
La
ripresa economica favorì la distensione: nel 1925, a Locarno,
Francia e Germania intrapresero un processo di riavvicinamento. Nel
1928, nell’ambito dei festeggiamenti per il decennale dell’ingresso
in guerra degli USA, il ministro francese Briand e il segretario di
Stato statunitense Kellog firmarono un patto di impegno per la pace e
l’integrazione mondiale a cui aderirono sessanta Paesi,
praticamente tutti gli Stati che allora esistevano al mondo. Non solo
i popoli ma anche i governi manifestavano una nuova responsabilità
in conseguenza degli orrori della Prima guerra mondiale.
Il
5 settembre 1929 Briand tenne un discorso in cui sosteneva l’assoluta
necessità dell’integrazione europea per scongiurare tragedie
future. E’ da notare che tale invito giungeva proprio dalla
Francia, antico Stato nazionale tradizionalmente geloso della propria
autonomia. Il discorso di Briand, che molti giornali sintetizzarono
in un titolo molto efficace, “Unirsi o perire”, fece grande
sensazione. Il cammino per l’integrazione era stato intrapreso.
Un
mese dopo all’incirca, un nuovo evento sconvolse però questo
processo: il crollo di Wall Street, la borsa di New York, trascinò
con sé le altre borse mondiali provocando una crisi economica senza
precedenti. Gli Stati europei reagirono all’emergenza tornando sui
loro passi e arroccandosi nuovamente, come prima della Grande guerra,
su posizioni di difesa della propria economia. Come dire “si salvi
chi può” rinunciando alla ricerca di soluzioni collettive.
La
crisi fu particolarmente drammatica in Germania in cui il movimento
nazista, che per un certo periodo aveva avuto largo seguito, era
ormai tramontato. La crisi “risuscitò” politicamente Hitler: i
Tedeschi, abbandonati dagli aiuti internazionali e nuovamente
precipitati nella miseria, ne appoggiarono l’ascesa. La vittoria
elettorale di Hitler nel 1933 chiudeva il processo di distensione e
integrazione e riportava l’Europa ancora una volta verso la guerra.
Sesto
tentativo: la Germania. Seconda fase
La
conduzione della guerra da parte della Germania nazista fu molto
diversa da quella tenuta nella Prima guerra mondiale: l’ideologia
nazista predicava l’annientamento di popoli ritenuti inferiori e
incoraggiava ogni comportamento efferato.
Tuttavia,
se ci limitiamo a considerare la strategia tedesca, ci rendiamo conto
che ben poco era cambiato rispetto alla Grande guerra: come in
precedenza, infatti, la Germania tentò di neutralizzare Francia e
Inghilterra, che da sempre si opponevano all’espansione tedesca,
per poi volgersi a est, alle vaste pianure russe che essa vedeva come
“naturale” riserva per la sua espansione territoriale. Dunque,
dietro le motivazioni razzistiche e prevaricatorie del nazismo
affiora quella motivazione economica che aveva fatto saltare il
sistema dell’equilibrio: i confini nazionali, nel secolo
precedente, avevano avuto la funzione di favorire lo sviluppo
economico e, per giunta, avevano rappresentato un valore positivo,
quasi sacrale, e pertanto dovevano essere difesi e protetti. Al
contrario, nell’era della moderna industrializzazione, essi erano
diventati un ostacolo, una costrizione che doveva essere eliminata a
ogni costo pena lo strangolamento dell’economia.
La
Seconda guerra mondiale presentò notevoli elementi di novità.
Innanzitutto essa fu la prima vera guerra totale, tale da coinvolgere
ogni aspetto della vita sociale, civile ed economica dei Paesi
belligeranti. In secondo luogo, essa si configurò con i caratteri di
un’inedita trasversalità. Mai come allora la saldatura tra alleati
fu così forte, tale da comportare una vera compenetrazione di forze.
Gli Alleati in campo avverso al nazismo unirono i loro arsenali, i
loro stati maggiori e le reti di spionaggio. E’ pur vero che la
presenza degli USA fu determinante per l’esito della guerra, ma
anche l’integrazione tra le forze europee fu una carta vincente.
Un
episodio poco noto ma molto rappresentativo fu quello relativo al
giugno 1940. Le armate naziste stavano avanzando su Parigi e appariva
ormai chiaro che la capitale sarebbe caduta. Per evitare la resa e la
consegna ai Tedeschi dell’intero Stato francese, per alcuni giorni
vi furono febbrili contatti tra Parigi e Londra. Si profilava la
possibilità di una fusione tra i due Stati che, con Londra capitale,
avrebbe permesso di continuare la guerra francese contro i Tedeschi.
La proposta fu in ultimo abbandonata per il prevalere
dell’orientamento nazionalista nel governo francese. Seppure
scartata, questa opzione rivela quanta strada avesse fatto la
consapevolezza della necessità di unirsi.
Un
altro carattere di trasversalità di questa guerra è dato dal fatto
che essa creò schieramenti del tutto indipendenti dai confini
nazionali. In tutti i Paesi di occupazione tedesca, dalla Francia
alla Norvegia, dal Belgio alla Jugoslavia, si costituirono gruppi
che, per opportunismo o per personale adesione ideologica al nazismo,
collaborarono attivamente con gli invasori. Queste persone, peraltro
di numero limitato, sono dette “collaborazionisti”.
Altrettanto
diffuso ma di proporzioni ben maggiori fu il fenomeno della
resistenza. Anche se vi furono caratteri differenti a seconda delle
varie realtà nazionali, la resistenza ebbe ovunque la stessa
impronta di fondo: si trattava non solo di cacciare una forza
occupante, quella tedesca, ma ancor più di sconfiggere la visione
del mondo di cui il nazismo era portatore: quella della
prevaricazione, della differenza gerarchica tra gli uomini. Si
trattava di affermare un’idea universale di dignità umana contro
quella negatrice e razzista che minacciava di cancellare o ridurre in
schiavitù interi gruppi umani. Sarà qui opportuno ricordare che
anche nella stessa Germania, in cui gli iscritti al partito nazista
erano circa sei milioni, un numero stimato tra il mezzo milione e il
milione di oppositori al regime fu eliminato dalla macchina
repressiva.
Non
è un caso che, superata la classica lettura della storia militare
come di confronto tra gli Stati, gli storici contemporanei abbiano
cominciato a parlare della Seconda guerra mondiale come di una
“guerra civile europea” nella quale si sono scontrate due opposte
visioni del mondo: quella totalitaria e quella democratica. Questa
adesione ideologica e morale è stata, per la prima volta nella
storia, più forte della tradizionale fedeltà allo Stato.
Alla
caduta di Berlino, un’Europa ridotta a un cumulo di macerie e ormai
priva del suo ruolo protagonista piangeva milioni di morti. Si
trattava di fare i conti con stragi spaventose, con orrori
inimmaginabili, con l’incubo che l’esperienza vissuta potesse
ripetersi.
Mentre,
tuttavia, la società civile si rialzava faticosamente, sgombrando le
macerie e ricostruendo edifici, un’altra ricostruzione, ancora più
difficile e più importante, prendeva avvio. L’Europa che aveva
conosciuto i campi di sterminio e i bombardamenti sulle città era
anche l’Europa della resistenza, dell’impegno della società
civile “dal basso” per fondare su nuove basi una nuova convivenza
tra i popoli.
Forse
proprio da questo, da sei anni di massacri e dalla maturazione
politica e morale nata dall’impegno diretto dei cittadini, derivano
i primi passi verso l’Unione Europea.
Verso
l’unione
Il
secondo dopoguerra presentava una situazione internazionale del tutto
nuova. Gli Stati europei avevano perso il loro tradizionale ruolo di
potenze economiche e militari mentre il terreno di scontro diventava
planetario con la contrapposizione tra USA e URSS.
Nel
contesto della Guerra fredda, i Paesi europei si trasformarono in
satelliti delle due superpotenze: quelli occidentali presero a
gravitare nell’orbita degli USA mentre quelli orientali divennero
sfera di influenza dell’URSS. Il pericolo per gli Stati europei,
insomma, non proveniva più dalle reciproche aggressioni ma, in
qualche modo, era diventato esterno e molto inquietante: la Guerra
fredda comportava la minaccia reciproca delle due superpotenze di
ricorrere all’arma atomica, scelta di cui l’Europa per prima
avrebbe pagato le spese.
Questa
minacciosa situazione internazionale rafforzò l’idea che
l’integrazione europea fosse assolutamente necessaria.
Il
ministro degli esteri francese, Robert Schuman, il 9 maggio 1950
propose un piano comune, comprendente anche la Germania, per la
gestione del carbone e dell’acciaio che consentisse all’Europa
occidentale di affrontare con successo la difficile ricostruzione
economica. Schuman fece veramente un gesto di grande coraggio
politico, tanto che la data del suo discorso, il 9 maggio appunto, è
stata assunta come festa della nascita dell’Europa. Nel suo
discorso il ministro diceva chiaramente che l’idea
dell’integrazione europea nasceva per fare sì che non si
verificassero mai più massacri e distruzioni.
La
guerra era finita ma le ferite dei popoli non erano ancora
rimarginate. L’odio per la Germania era ancora forte e vivo in
buona parte dell’Europa e non sono pochi quelli che ricordano che
il solo sentire parlare tedesco dava loro i brividi. Eppure la
lezione della Seconda guerra mondiale riportava al monito di Briand,
a quell’”unirsi o perire” che dopo la devastazione acquisiva
nuova forza e nuova verità. La nascita della Comunità Europea del
Carbone e dell’Acciaio (CECA), il 18 aprile 1951, rappresentò, con
la vittoria su antiche rivalità e rancori recenti, il primo nucleo
dell’Unione Europea.
Considerazioni
conclusive, tra luci e ombre
L’allargamento dell’Unione Europea
ai Paesi dell’Europa orientale ha avuto un’importante funzione
stabilizzatrice: la repentina scomparsa dell’URSS ha reso
indispensabile la loro integrazione in un saldo sistema di relazioni,
pena il rischio di una pericolosa instabilità politica. Per questa
ragione l’integrazione di Paesi che pure non hanno raggiunto gli
standard economici e sociali degli Stati più avanzati dell’Europa,
che può sembrare a prima vista uno svantaggio per l’Unione, alla
lunga, può tradursi in un vantaggio.
I nuovi membri dell’Unione, insieme
ad alcuni membri “antichi”, rappresentano però un fattore
critico a livello economico: i loro redditi pro capite sono ancora
ben al di sotto della media europea e le loro economie si sono
rivelate estremamente fragili sotto i colpi della crisi finanziaria
internazionale del 2008. Oggi l’Unione Europea deve sostenere il
peso di massicci aiuti finanziari ai Paesi membri (primo tra tutti la
Grecia) che rischiano il tracollo.
Fino a oggi il processo di
integrazione europea ha privilegiato le questioni dell’economia e
degli scambi commerciali e, in questo settore, ha ottenuto importanti
risultati. A livello politico e sociale, invece, l’integrazione
procede a rilento a causa soprattutto dei timori degli Stati di
perdere la loro identità e la loro sovranità nazionale. Il
Parlamento Europeo, l’istituzione che meglio rappresenta i
cittadini dell’Unione, ha tuttora poteri limitati e i governi
europei si sono dimostrati quasi sempre incapaci di intraprendere
un’efficace politica estera comune. Manca, inoltre, una forza
militare autonoma dai singoli Paesi membri. Per queste ragioni, di
fronte alle questioni e alle crisi internazionali, gli Stati europei
si sono presentati in ordine sparso, confermando l’opinione di chi
vede nell’Unione Europea «un gigante economico e un nano
politico».
Il progetto di Costituzione europea,
approvato dal Parlamento nel 2005, è stato bocciato dalla Francia
con una consultazione referendaria. La Costituzione avrebbe
rappresentato un importante passo avanti verso l’autentica
unificazione politica dell’Europa, ma questo processo risulta oggi
di fatto bloccato e rinviato.
La divisione politica interna
all’Unione si sta oggi rivelando un pericolo anche per l’economia.
Manca, infatti, un potere politico che sia nella condizione di
controllare la moneta unica e ciò rende l’Unione Europea facile
preda per gli attacchi della speculazione finanziaria.
In
verità, dunque, siamo ancora lontani dal potere parlare di “Stati
Uniti d’Europa”, ma, per quanto ancora imperfetta, l’Unione
Europea si presenta oggi come un elemento importante, forse decisivo,
per la stabilità mondiale. La fine della Guerra fredda e la crisi
dell’URSS hanno lasciato gli USA come unica superpotenza mondiale e
questo “unipolarismo” non è privo di rischi. E’ invece
importante che le scelte in campo mondiale vengano prese sulla base
di un confronto tra attori diversi, capaci di influenzarsi a vicenda.
Un’Europa divisa non può avere rilevanza internazionale mentre
un’Europa unita può giocare un ruolo determinante come potenza
mediatrice.
Quello
che abbiamo imparato dalla nostra storia è che l’instabilità di
un Paese rischia di coinvolgere gli altri e di generare conflitti.
L’Unione è la strada più sicura per evitarli.